(For the English translation, see here)

di Diego Cavallotti – Laboratorio La Camera Ottica, Università degli Studi di Udine

È ormai un affare di pubblico dominio: la preservazione degli archivi filmici amatoriali – e, più in generale, dei film a passo ridotto – si configura come un campo le cui linee di espansione riguardano la scoperta e la valorizzazione dei patrimoni cinematografici locali. Ogni impresa in questo ambito non può non rifarsi ai grandi pionieri – prima fra tutti alla Cinémathèque de Bretagne e alle attività che lì si organizzano dal 1986. Se il valore storico-culturale di materiali substandard appare ormai appurato, diverse sembrano essere le questioni di natura teorica (e, più in generale, epistemologica) che lo sviluppo di simili archivi pone. Si tratta di questioni riguardanti la “natura” stessa degli oggetti e delle loro strutture caratterizzanti. Per esempio si è mai riflettuto sulle questioni della grana e della sua visibilità riguardo al film amatoriale?

Uno dei contributi più interessanti in tal senso è stato elaborato da Giuseppina Sapio, che nel saggio “Homesick for Aged Home Movies: Why Do We Shoot Contemporary Family Videos in Old-Fashioned Ways?” considera la visibilità della grana come una vera e propria cifra stilistica della comunicazione amatoriale. Non a caso, quando oggi giriamo un breve video con uno smartphone, abbiamo la possibilità di utilizzare un filtro che aggiunge “grana” alle immagini: l’obiettivo è quello di sfruttare la grana non come una caratteristica materiale, ma come una sorta di marca enunciativa capace di conferire a ciò che abbiamo girato un carattere nostalgico. In questo senso, la grana è un semplice (e superficiale) strumento d’enunciazione, i cui significati profondi possono essere compresi se, da archivisti, riflettiamo su come si configuri la grana di un film amatoriale conferito a un archivio.

Se, infatti, a livello enunciativo, la grana ci indica lo “stile” di una struttura materiale (il film amatoriale), a livello archivistico ci pone di fronte a una doppia temporalità: da un lato, vi è la distanza temporale che ci separa dal momento e dal contesto in cui il film è stato prodotto – una separazione sancita dal suo ingresso in archivio e che rimanda “all’invecchiamento” del film, alla sua “temporalità esteriore” –, dall’altro vi è il processo temporale delle diverse reazioni chimiche che consentono all’immagine di formarsi e di diventare intellegibile – la sua “temporalità interiore”. Queste due temporalità racchiudono il mistero di film (spesso) poco coesi e coerenti, la cui forza risiede proprio nella loro capacità di farsi “memoria filmica”.

Per quanto riguarda la “temporalità esteriore”, la grana è, innanzitutto, il marcatore di un’assenza, o meglio di un’obsolescenza. Ci ricorda, infatti, che il tempo in cui il film a passo ridotto veniva utilizzato per riprendere ciò che ci circondava o per dare libero sfogo alla creatività di dilettanti è ormai finito: le giuntatrici e le moviole portatili sono state rimpiazzate da video digitali montati in macchina o da costose suite di montaggio. L’unità di base della materia-film, la grana, e la sua impronta analogica – il suo essere, cioè, parte di un sistema di informazione sequenziale e lineare (vs il digitale, discreto e non-lineare) – sono gli elementi simbolici che caratterizzano oggetti “non più al passo col tempo” e, quindi, archiviabili lontano dalla contemporaneità. In altri termini, la visibilità della grana ci riporta a un altro regime scopico, ormai superato, che ha caratterizzato una parte considerevole della produzione e della diffusione delle immagini nel Novecento: la texture di ciò che vediamo così si carica di un forte carattere simbolico, configurandosi come una delle possibili forme della memoria del secolo passato.

Per quanto concerne la “temporalità interiore”, invece, entriamo in un campo di riflessione molto più vicino all’archeologia dei media e, in particolare, al concetto di archeografia elaborato da Wolfgang Ernst. Lo studioso tedesco, occupandosi principalmente di hardware digitali, sostiene che essi possiedono una loro temporalità profonda, legata ai processi elettronici (e, più in generale, ingegneristici) attraverso cui si crea e si visualizza l’informazione. Si tratta di strutture in cui a una concezione cronologicamente lineare del tempo si sostituiscono le microtemporalità connesse alle dinamiche operazionali dei media digitali. Tali microtemporalità, insomma, determinano la temporalità “profonda” del digitale, che appare assai distante dalla sequenzialità “narrativa” delle tecnologie analogiche. A questo punto, tuttavia, emerge una domanda: siamo sicuri che altre forme di temporalità “profonda” non si presentino anche in campo analogico?

In questo senso, torna a essere centrale la questione della grana. Il suo processo di formazione, infatti, può essere considerato in senso analogo alle microtemporalità dei media digitali. Qui invece dell’orizzonte operazionale elettronico abbiamo processi chimici: la formazione dell’immagine dipende da una molteplicità di fattori, tra cui, per esempio, la corretta applicazione del protocollo di sviluppo e il rispetto dei tempi previsti da esso. Soprattutto perché tali passaggi sono frutto di una tecnica, ossia di un incontro tra pratiche umane e oggetti, in cui ogni piccolo cambiamento non produce un errore di sistema ma una variazione, avremo che la grana si formerà sempre secondo un processo idiosincratico.

La formazione dell’immagine su pellicola rimanda così a un processo di sviluppo in cui i valori sensitometrici non sono mai sempre gli stessi, anche se si prende avvio da un medesimo raw stock: una stessa forma, ripresa in condizioni identiche, non ha mai le stesse tonalità perché la temperatura del bagno di sviluppo può cambiare sensibilmente. La microtemporalità della pellicola, dunque, afferisce a un processo caratterizzato da precisi step (il bagno di sviluppo), il cui risultato tuttavia è sempre idiosincratico.

La grana filmica, insomma, si comporta come se la sua formazione (o, a utilizzare un termine tratto da Gilbert Simondon, la sua individuazione) procedesse come quella di un cristallo, o meglio ancora di un corallo: i loro elementi strutturali prendono forma a seconda dell’ambiente in cui si trovano, dando vita a escrescenze inaspettate e a configurazioni uniche. Perché, in fondo, la grana, esattamente come i cristalli o i coralli, fa un po’ quello che le pare…

Diego Cavallotti (1983) è assegnista di ricerca e docente di Semiotica dei Media Audiovisivi e di Laboratorio di Restauro e Archiviazione Digitale del Film e del Video presso l’Università di Udine. È membro dello steering committee della MAGIS Spring School di Gorizia e co-fondatore della sezione Media Archaeology. Dal 2017 è nel coordinamento dell’International Film Studies Conference di Udine-Gorizia ed è il responsabile dell’area film del laboratorio La Camera Ottica – Film and Video Restoration.


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